LA PROVENENZA
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Provenienza: tessuto nel 1539-1540 per Federico II Gonzaga duca di Mantova, come primo elemento di una serie detta dei Puttini da cartoni di Giulio Romano; defunto il primo committente, la serie fu portata a compimento da Nicola Karcher entro il 1545 (ma probabilmente già nel 1540-1541) per il fratello di Federico, il cardinale Ercole Gonzaga, vescovo e reggente di Mantova. La serie, rimasta nella linea ereditaria dei Gonzaga duchi di Mantova, è successivamente menzionata più volte nei documenti e inventari della corte mantovana nel XVI e XVII secolo, fino al suo trasferimento da Mantova a Venezia con Ferdinando Gonzaga, ivi defunto nel 1709: passò allora in eredità a Leopoldo I di Lorena che ne effettuò la dispersione. I componenti della serie hanno poi avuto storie diversificate: l’arazzo qui schedato, dopo essere appartenuto a una collezione privata viennese ed essere passato sul mercato antiquario a Londra (1972-1973), è divenuto proprietà del celebre storico dell’arte Federico Zeri che lo ha conservato fino alla morte (1998) nella sua casa-villa a Mentana (Roma); è poi passato all’asse ereditario familiare, donde è pervenuto all’attuale proprietà.
I PUTTINI NELLA RACCOLTA DI ERCOLE GONZAGA
La presenza della serie di arazzi con i Puttini nella raccolta di Ercole Gonzaga è documentata dal 1557, quando viene ricordata nel secondo testamento del cardinale. Sappiamo, grazie all’inventario dei beni di Ercole stilato nel 1563, che la serie dei Puttini era composta da dieci panni di grandi dimensioni, due portiere e due sopraporte, Venere, un satiro e putti che giocano è il primo elemento della serie, fu tessuto da Nicola Karcher nel 1539-1540 usando disegni di Giulio Romano; sono stati infatti ritrovati un buon numero di studi di soggetti simili di mano di questo pittore. Karcher arrivò a Mantova entro l’8 ottobre 1539 e la serie gli fu commissionata da Federico II. Alla morte di Federico il 28 giugno 1540 il fratello Ercole, subentrato al fratello nella commissione , la porterà a termine.
Federico II possedette un’ampia raccolta di arazzi, formata da decine di manufatti fiamminghi, di cui fece sfoggio in occasione della visita di Carlo V a Mantova nel 1530; la sua consistenza è nota tramite un inventario del 1541. Ma nell’ultimo anno di vita, suggestionato probabilmente dalla sontuosità degli arazzi prodotti nella manifattura aperta nel 1536 dal duca Ercole II d’Este a Ferrara, i più belli dei quali erano basati su disegni inviati proprio da Mantova, da Giulio Romano, anche Federico II decise di aprire un analogo laboratorio nella sua capitale, al quale ordinare tappezzerie disegnate dal suo più valente e poliedrico artista. L’arazziere convocato fu il valentissimo Nicola Karcher, già attivo a Ferrara, col fratello Giovanni, e con Giovanni Rost, dal 1536: nativi di Bruxelles, questi tre arazzieri furono i più abili tessitori attivi in Italia nel XVI secolo. In Italia, a Casale Monferrato, aveva lavorato anche Luigi Karcher, arazziere, padre di Giovanni e Nicola. Nicola Karcher, a Ferrara nel 1536-1539, poi a Mantova fino al 1545, sarebbe poi stato il fondatore, con Rost, della gloriosa arazzeria fiorentina (dove eseguì, con Rost, le maggiori serie ordinate da Cosimo I de’ Medici, da cartoni di Pontormo, Salviati, Bronzino, Bachiacca, quali le celeberrime Storie di Giuseppe a Palazzo Pitti e al Quirinale, le Grottesche a Palazzo Pitti e nell’Ambasciata italiana a Londra, i Mesi a Palazzo Pitti, oltre a portiere e paliotti da altare), prima di rientrare a Mantova nel 1555 e morirvi nel 1562.
Una lettera-salvacondotto per l’esenzione dell’arazziere dal pagamento dei dazi, dell’8 ottobre 1539, firmata da Federico II Gonzaga, indica che a tale data Nicola Karcher si era già trasferito da Ferrara a Mantova e stava allestendo la sua manifattura: “avendo noi condutto in questa terra Nicola Carcher di Burselles, maestro di tappezarie, perché l’habbia da tessere per la corte nostra tappezzarie, secondo gli disegni che gli faremo dare, volemo che l’habbia l’essentione da tutti gli datii per lui et quelli che pigliarà a lavorare seco, che seranno in tutto undeci bocche, acciò che facilmente el possa aver delli operari et lavorare con maggiore comodità sua …”.
IL LABORATORIO MANTOVANO DI NICOLA KARCHER
Un’altra lettera inviata al duca il 14 novembre successivo avvisava che Karcher aveva iniziato i suoi lavori nella manifattura mantovana, avendo evidentemente già ricevuto i primi modelli da copiare: “in questa matina ho parlato con maestro Nicollò tapezero, et m’à deto aver comenzato a lavorar in la tapezeria perhò in li frissi [fregi]”. Poiché Federico II morì il 28 giugno 1540, non poterono certo essere molti gli arazzi eseguiti per lui da Nicola Karcher e dai suoi operai, tanto più che nel maggio 1540 lo stesso arazziere era momentaneamente a Casale Monferrato per curare certi suoi affari di famiglia.
L’arazzo con Venere spiata da un satiro, e putti qui schedato è unanimamente considerato dagli storici degli arazzi antichi l’unico sicuro esempio superstite dell’attività del laboratorio mantovano di Nicola Karcher nei pochi mesi (novembre 1539 – giugno 1540) in cui poté operare al servizio di Federico II e d’altra parte, poiché non esiste più alcuno degli arazzi tessuti da Nicola Karcher a Ferrara nei tre anni precedenti, esso è anche il più antico panno sopravvissuto fabbricato in Italia dal grandissimo arazziere brussellese.
La scena dell’arazzo si basa su un magnifico modello grafico di Giulio Romano (fig.12), in controparte, tracciato a penna, inchiostro bruno e biacca, conservato nella collezione dei Duchi del Devonshire a Chatsworth, considerato uno dei disegni più belli dell’artista. Già ritenuto un possibile modello per un affresco eseguito a Marmirolo, il disegno è stato identificato da Nello Forti Grazzini, ora anche stabilmente riconosciuto dagli specialisti di Giulio Romano, come preparatorio per il cartone dell’arazzo di cui stiamo parlando e datato in concomitanza con l’arrivo di Karcher a Mantova, nell’ottobre 1539, anche se potrebbe essere stato tracciato qualche mese prima, in vista del trasferimento dell’arazziere.
Nel disegno, la scena era stata inizialmente prevista un poco ampliata in alto e in basso, ma due linee orizzontali tracciate presso i bordi, in alto e in basso, hanno poi delimitato la scena, come è stata effettivamente intessuta: la rifilatura in basso ha costretto Giulio Romano, nel riporto della scena sul cartone, a rialzare leggermente la riva superiore del ruscello (per lasciare quest’ultimo visibile sul proscenio) e ad abolire la figuretta di un delfino (animale sacro a Venere), dalla cui bocca scaturiva l’acqua che si gettava nel ruscello, sostituendolo con la fonte naturale visibile nell’arazzo.
Nello stesso ottobre-novembre 1539 la scena del disegno dovette essere riproposta, ingrandita, sul cartone-modello dell’arazzo, sicuramente dipinto dallo stesso Giulio Romano con la collaborazione della sua esperta bottega. Un frammento del cartone, raffigurante Tre putti e una lepre (il dettaglio, abbozzato nel disegno a Chatsworth, è riprodotto nell’arazzo in secondo piano,presso la testa del satiro), è conservato al Louvre, n.3566:ritenuto autografo di Giulio Romano e collegato al disegno di Chatsworth da R.Bacou, è stato poi identificato da Nello Forti Grazzini come una porzione del cartone per l’arazzo qui considerato.
IL DISEGNO DI GIULIO ROMANO
Risultano così saldamente fissati e tra loro collegati in sequenza cronologica i principali riferimenti filologici dell’arazzo con Venere spiata da un satiro, con puttini: commissionato da Federico II Gonzaga a Nicola Karcher giunto a Mantova, il manufatto si basa su un disegno di Giulio Romano dell’ottobre (o estate) 1539, trasposto sul cartone dallo stesso artista nell’ottobre-novembre 1539, che fu copiato al telaio nella manifattura mantovana del Karcher entro la data di morte del committente, il 28 giugno 1540.
La scena dell’arazzo, di stile e contenuto classici, ha la sua fonte letteraria nella descrizione di un antico dipinto, già in una villa di Napoli, raffigurante Venere con gli amorini intenti a giocare, lottare, pescare, raccogliere frutti, proposta all’inizio del III secolo d.C. dal retore greco Filostrato, nelle Eikones(o Images), I,&: questo testo tradotto nel 1510 dal greco in latino, a Ferrara, da Celio Calcagnini, su commissione del duca Alfonso I d’Este, era già stato illustrato da Tiziano verso il 1518-1519 nel dipinto del Culto di Venere ora al Prado, uno dei Baccanali per i “Camerini dorati” del Castello di Ferrara. Allo stesso testo si era ispirato Raffaello per due disegni raffiguranti i Giochi di putti, perduti ma noti tramite riproduzioni incise, sicuramente noti a Giulio Romano, allievo dell’Urbinate, che ne tenno conto per il progetto dell’arazzo di Federico II. Giulio trasse spunti anche dalle scene dei Giochi di putti, gli arazzi tessuti a Bruxelles per papa Leone X sulla base dei disegni di Tommaso Vincidor, anche egli allievo di Raffaello, del 1520-1521, a loro volta ispirati dai disegni di Raffaello (sulla serie leonina perduta, ma nota tramite disegni preparatori, riproduzioni a incisione e repliche intessute. L’idea di rappresentare, nell’arazzo per Federico II, dei putti arrampicati su un albero che lanciano frutti ai loro compagni a terra è derivata da Raffaello; il gruppo dei putti che lottano avvinghiati era già nei disegni di Raffaello e nei disegni di Vincidor per gli arazzi vaticani.
Inedita, nel quadro delle opere ispirate dal passo di Filostrato, era poi, nell’arazzo, anche l’introduzione del satiro – tradizionale metafora della passione carnale – intento a spiare la nudità di Venere: un motivo per il quale esistono comunque importanti precedenti rinascimentali italiani sicuramente noti a Giulio Romano, quali un’illustrazione della Hypnerotomachia Poliphili di Francesco Colonna (nella celebre edizione di Aldo Manuzio, Venezia 1499), o l’incisione con la Ninfa dormiente e due putti spiata da un satiro di Benedetto Montagna; ma una più celebre e ammirevole fonte figurativa per lo stesso motivo, certo conosciuta da Giulio, avrebbe potuto essere il dipinto di Correggio con Venere, Cupido e un satiro (Louvre, circa 1525). Il tema del baccanale dei puttini comprendente una donna nuda spiata da un satiro sarebbe poi stato ripreso anche da Perino del Vaga, per influsso di Giulio Romano, in un disegno del 1542-1543 circa, conservato al British Museum .
L’arazzo faceva parte di un più maestoso apparato decorativo. Esso infatti non fu sicuramente concepito come un elemento isolato, ma come il primo numero di una serie più ampia, denominata i Giochi di putti o meglio i Puttini, secondo il titolo riportato negli antichi documenti e inventari, che pianificata inizialmente per Federico II Gonzaga e prevista su arazzi tessuti con trama di lana e seta, fu portata a compimento da Nicola Karcher dopo la morte del duca, su commissione del fratello di Federico, Ercole Gonzaga, cardinale, vescovo di Mantova e, dal 1540, anche reggente dello stato mantovano in attesa della maggiore età del legittimo erede; ma per la seconda tranche della serie, riconoscibile per la presenza degli stemmi araldici di Ercole alla sommità delle scene, la trama delle tappezzerie si fece più preziosa, includendo anche abbondanti filati d’oro.
Solo in parte gli arazzi superstiti corrispondono ai bozzetti sopravvissuti, ma la tipologia delle scene che ci sono pervenute si conforma pienamente alla tipologia iconografica dei progetti grafici e accerta che il cartonista di tutte le opere fu Giulio Romano.
Quanto al seguito dei Giochi di putti, per Ercole Gonzaga, verosimilmente terminati da Nicola Karcher prima di lasciare Mantova per Firenze nel 1545, ma probabilmente eseguiti subito dopo la prima tranche della serie, nel 1540-1541, ne sopravvivono quattro elementi completi, detti la Barca di Venere/Fortuna , La partita a palla , la Danza e la Pesca , e due minori frammenti detti il Gatto e il Cane nel Museo Gulbenkian a Lisbona, e un ulteriore frammento, anch’esso detto la Danza dei putti, nel Museo Poldi Pezzoli a Milano.
Di questo glorioso gruppo di arazzi, i Giochi di putti o Puttini disegnati da Giulio Romano, tessuti da Nicola Karcher, ordinati da esponenti di primo piano della casata dei Gonzaga e celebranti il loro dominio a Mantova, era parte integrante l’arazzo con Venere spiata da un satiro coi puttini qui considerato: prodotto di un’eccezionale congiunzione mecenatesca ed artistica, tutta italiana e che ebbe luogo in uno degli snodi fondamentali della storia della Penisola in uno dei suoi momenti più fulgidi, il panno va annoverato tra i grandi capolavori della storia dell’arte.